Nel 1868, dopo 250 anni di un incredibile isolamento economico e culturale, il Giappone cede all’inesorabile incalzare della modernità e all’esuberanza politica di un nuovo e scomodissimo vicino, gli Stati Uniti d’America che tanto incideranno, da allora in poi, sui destini del paese del Sol Levante.
Nell’Europa Fin de Siècle è subito Giapponemania, o meglio Japonisme, come venne definito dai Francesi con il loro consueto stile, ovvero quell’attrazione fatale che suscitarono le opere che giunsero da noi attraverso l’intermediazione dei sempre attenti Olandesi, che subito approfittarono dell’apertura di questo nuovo grande mercato orientale.

È veramente interessante osservare come il lungo isolamento del cosiddetto Periodo Edo, determinò in Giappone il recupero e la valorizzazione delle antiche tradizioni ma anche una lunga cristallizzazione culturale che, una volta entrata in contatto con l’Occidente, fece immediatamente sbocciare straordinarie ispirazioni negli artisti dell’epoca, dagli Impressionisti ai post-impressionisti, per citare solo la pittura.

…la pittura giapponese piace, se ne subisce l’influsso, tutti gli impressionisti hanno questo in comune… Il Giapponese disegna in fretta, molto in fretta, come un lampo, perché i suoi nervi sono più delicati e i sentimenti più semplici…

Studiando l’arte giapponese si vede un uomo indiscutibilmente saggio … che passa il suo tempo a far che? A studiare un unico filo d’erba. Ma questo unico filo d’erba lo conduce a disegnare tutte le piante, e poi le stagioni e le grandi vie del paesaggio, e infine gli animali e poi la figura umana… Non è possibile studiare l’arte giapponese senza diventare molto più gai e felici, e senza tornare alla nostra natura nonostante la nostra educazione e il nostro lavoro nel mondo della convenzione.

Sono queste le entusiastiche parole di Vincent Van Gogh, uno dei nostri grandi ispirati dallo stile Ukiyo-e, le rappresentazioni del Mondo Fluttuante che attraverso ripetuti disegni e xilografie policrome hanno descritto le infinite sfumature della nebbia, delle piogge, delle nevi e di ogni ciclico mutamento stagionale. I più famosi interpreti di quest’arte sono per noi Hokusai (1760-1849) e Hiroshige (1797-1858), il primo presentato a Roma lo scorso autunno in una mostra di notevole successo all’interno dell’Ara Pacis (in una sala più angusta che augusta), il secondo esposto ora alle Scuderie del Quirinale fino alla prossima estate.

Sembrerebbe che in questi anni l’Occidente sia colto da un nuovo Japonisme, magari decisamente più grossier, sempre per dirla con i Francesi. Le sempre più numerose proposte di mostre dedicate alla cultura nipponica, mai a Roma si sono avute due esposizioni così ravvicinate su due autori giapponesi, sono in realtà piuttosto coerenti con una nostra quotidianità fatta improvvisamente anche di sushi bar, ramen caffè, fumetti manga e karate. Tuttavia, le opere di Utagawa Hiroshige alle Scuderie, oltre 200 distribuite con cura in 7 sezioni, meritano di essere guardate, e godute, una per una. Il mondo che vi è rappresentato alla vigilia della fine del lungo isolamento giapponese, il Sakoku, non esiste più e anche solo per questo le bellissime scene di genere policrome, dalle stazioni di posta ai mercati del pesce, dalle sale da tè alle figure femminili, sono per noi una preziosa testimonianza quasi fotografica di un’epoca e di uno stile di vita concluso per sempre.

di Gabriele Rossoni