Panaghis Vallianos vigila austero seduto su un solido scranno in uno degli angoli della vasta piazza di Argostòli a lui dedicata. La sua statua è sopravvissuta alle distruzioni, naturali e umane, del secolo scorso e alla recente anonima ricostruzione del capoluogo dell’isola di Cefalonia. La Diaspora Greca, così viene chiamata la grande migrazione del popolo greco nell’occidente più ricco avvenuta a partire dal XIX secolo, povera gente ma anche commercianti, armatori e intellettuali, vide fra questi i fratelli Vallianos, nati in un villaggio di Cefalonia ai piedi del castello bizantino di San Giorgio, che in Russia e poi a Londra hanno avuto grande fortuna contribuendo da mecenati alla nascita del moderno stato di Grecia. E così una bella statua di Panaghis Vallianos campeggia davanti alla Biblioteca Nazionale di Atene, da lui finanziata, e nella piazza principale di Argostòli, a pochi chilometri dal suo villaggio natale.
L’Argòstoli attuale non conserva testimonianze della sua fondazione veneziana dei secoli 1600 e 1700, quando la Serenissima Repubblica dominava i mari dell’Adriatico, e quasi più nulla della piacevole cittadina che doveva essere a inizio Novecento. Terremoti micidiali, su tutti quello più recente del 1953, e bombardamenti aerei, dieci anni prima, l’hanno completamente azzerata e dopo anni di triste precarietà Argòstoli è stata del tutto ricostruita grazie alla spinta economica ricevuta dal turismo che in Grecia si è gettato in massa a partire dalla seconda metà degli anni ’70 dopo l’inquietante parentesi della dittatura militare.
Ma permane immutata la natura del luogo, le acque limpide del golfo dai margini sinuosi che dividono Argostòli dalla penisola di Lixouri sono le stesse in cui trovavano riparo le galere veneziane e ancor prima le triremi greche e i coloni micenei, l’Enos oggi come allora incombe dall’alto come una montagna sacra e l’aria è quella particolarissima di queste isole in cui il profumo dei boschi si spande mescolato al salmastro. E il cielo e il mare in certi giorni si confondono nelle tonalità dell’azzurro, del grigio e del verde.
Questa aria hanno respirato e questi colori hanno visto anche gli occhi di migliaia di ragazzi italiani che si ritrovarono per il Caso, nel senso della greca Tyche, a Cefalonia nell’estate del 1941. Manovali, contadini, operai diventarono invasori e nemici per un disegno della storia che in quel momento li aveva collocati al fianco di un alleato così diverso da loro per ideali e obbiettivi e contro un popolo con cui invece tanto avevano in comune.
In piazza Vallianos non è rimasto quasi nulla degli edifici di allora, soprattutto il palazzo del nostro Comando Militare che probabilmente si ergeva dove ora si colloca l’albergo dove ho preso alloggio e dove di notte tento di percepire le vibrazioni lasciate da chi ha riempito quello spazio prima di me, quel generale e tutti i suoi ufficiali messi dalla Tyche al cospetto di qualcosa molto più grande di loro. La tragedia greca che si è consumata in pochi giorni nel settembre del 1943 non era immaginabile per quegli uomini che a Cefalonia alla fine avevano ritrovato casa risolvendo con sé stessi e con gli abitanti del luogo quell’equivoco storico che li aveva messi lì come nemici, tra quegli ulivi e quelle vigne così simili a quelle che coltivavano in Italia, tra quelle donne che tanto assomigliavano alle loro mogli e fidanzate.
Per quei ragazzi il destino era segnato. Dopo 80 anni dai fatti, valutazioni storiche meno condizionate dalla retorica hanno ammesso che a Cefalonia ogni difesa sarebbe stata vana per la sproporzione delle forze con i nostri nuovi nemici, diventati ex alleati da appena una settimana, che assieme alla ferocia degli Stuka, letteralmente aerei da bombardamento in picchiata che ululavano bassi nei cieli come terribili erinni, avevano al fianco la fredda spietatezza della vendetta. Come in una tragedia greca la sorte dei soldati della Divisione Acqui era decisa, il mare di Cefalonia, bello e antico, era diventato una prigione invalicabile, l’azzurro e profumato cielo di settembre una trappola mortale.
Sono andato a capo San Teodoro, sulla punta della penisola di Argostòli, dove è collocato un bel faro bianco e circolare come un’antica tholos e dove un tempo si trovavano alcune villette con patio inizio Novecento tra cui la Casetta Rossa, come la chiamavano i Nostri. È qui che vennero condotti tutti gli ufficiali, passati per le armi a centinaia in un solo giorno. Pensavano che una volta arresi sarebbero stati condotti in terra ferma, rinchiusi nei campi di prigionia, durissimi certo ma che davano una speranza di sopravvivere, invece quella mattina luminosa di metà settembre i camion non svoltarono verso il porto di Sami ma proseguirono per la strada di San Teodoro. Vennero tutti ammassati nel giardino di quella villetta e dieci per volta vennero giustiziati per ore, lasciando la vita con lo sguardo rivolto al bel mare. Vent’anni di oblio da quei giorni e poi le migliaia di vittime dell’aberrazione umana, troppo frequente nella storia per essere merce rara, cominciano a risorgere grazie alle pagine di un bel romanzo che sarà tradotto in 14 lingue tranne quella degli autori dell’eccidio (*). Ancora 10 anni e la RAI di inizio anni ’70, allora molto Televisione di Stato, presenta un lungo documentario interamente dedicato ai fatti di Cefalonia (**). Il mondo nel frattempo è molto cambiato e gli alleati storici che erano diventati all’improvviso spietati nemici sono tornati ad essere nostri fidati alleati. Solo nel marzo del 2001 un presidente della Repubblica Italiana compirà una prima visita ufficiale nell’isola spezzando finalmente quella cortina di imbarazzo e senso di colpa del nostro Stato verso una vicenda tanto grande quanto scomoda (***).
Sono passati 80 anni, Argostòli è ora completamente ricostruita, la Casetta Rossa è crollata per il terremoto, Cefalonia è una bellissima isola delle Ionie meta di vacanzieri innamorati come me della Grecia, piazza Vallianos nelle sere d’estate è riempita dalle grida dei bambini che giocano e si rincorrono, nulla che possa ricordare il martirio di migliaia di giovani italiani se non un monumento ai caduti, in mezzo agli ulivi, in cima a una collina raggiungibile solo di proposito. Mi sono convinto che è meglio così.
(*) Marcello Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia, 1963
(**) Tragico e Glorioso ’43. L’eccidio di Cefalonia. Programma RAI a cura di Mario Francini, 1973
(***) Carlo Azeglio Campi, 1 marzo 2001. Discorso di Cefalonia pubblicato su https://presidenti.quirinale.it/Elementi/182868